Teatro

Poesia e tecnologia: il viaggio dei Système Castafiore per tornare alla Natura

Poesia e tecnologia: il viaggio dei Système Castafiore per tornare alla Natura

Autunno 2813. Gli esseri umani hanno lasciato la terra per abitare un luogo formato da elementi urbani le cui fondamenta sono tante tour Eiffel capovolte, un ambiente che mette insieme le ombre di Blade Runner, la visione di Magritte e l'apologia della Natura di Avatar. Siamo a Tarkovgrad, città sospesa in cui si muovono tre post-umani ed un bambino malato di qualcosa di non diagnosticabile. I dialoghi sono serrati e si accavallano in una lingua inesistente formata da sole radici, memori di eredità slave, francofone ed anglosassoni insieme, e l'azione è concepita come una successione molto veloce (a volte anche troppo) di quadri, tableaux descritti con precisione e costruiti ispirandosi al cosiddetto 4D, che combina le caratteristiche del cinema in 3D con gli effetti fisici in sala, sullo sfondo di proiezioni in realtà virtuale particolarmente curate.

Per trovare una cura adatta al figlio Nitsch, i due protagonisti devono attraversare un universo postmoderno fino ai suoi pericolosi confini, e passare attraverso 9 ambienti con un percorso che ricorda l'antichissimo (ed anche un po' abusato) rito iniziatico che conduce alla verità, un luogo al termine del quale troveranno che la fine è nel principio, e la soluzione-panacea anche per il fisico malato di Nitsch sta in un indistinto quanto potente ritorno alla Natura.

Stand Alone Zone, l'opera della compagnia Système Castafiore per la cui grande abilità tecnica meritano una citazione tutti i curatori degli elementi coinvolti, dalla scenografie di Jean-Luc Tourné alle luci di Yann Le Meignen, dalle coreografie di Marcia Barcellos ai costumi di Christian Burle, in scena come ultima rappresentazione di Teatro a Corte al teatro Astra, ha un pregio davvero particolare nella sua resa complessiva, che spesso lascia lo spettatore incantato davanti a scene come il guardiano della prima porta Tronkhaton, la navigazione del pescatore, il combattimento fra ciechi, la discesa sotterranea che produce una trasposizione di prospettiva dell'intera scena (attori compresi) di 45° e dall'effetto sorprendente, e soprattutto l'accurata riproduzione dal vivo dell'effetto 3D di un animale solitario. Una padronanza della tecnica tale, da chiedersi perchè la regia non si sia soffermata su alcuni tratti che avrebbero consentito una linea drammaturgica più definita, mentre invece a volte viene gestita troppo velocemente (ed il cambiamento di scena è azione che oltretutto in sé inevitabilmente occupa il suo necessario tempo), così come l'aver posto alla fine del percorso di salvezza un elemento orientaleggiante ha un retrogusto di scorciatoia.

Negli occhi e nel piacere della percezione globale però, restano le gesta avveniristiche di Marcia Barcellos, Sylvère Lamotte, Cédric Lequileuc e Sara Pasquier, che diretti da Karl Biscuit fanno vivere una fiaba che sembra ripercorrere la sontuosità del film di James Cameron, in cui mondi paralleli, mutanti, civiltà altrove e segmenti ancestrali formano un quadro poetico e coraggioso dal livello tecnico assolutamente fuori dal comune, chiusa da un finale delicatissimo in cui la leggerezza dell'armonia ritrovata coinvolge ogni cosa, fino a far volare pensieri ed oggetti intorno alla guarigione del bambino ritrovato.